Il volo era stato di poche ore su un grosso aereo della “Biman air” la compagnia bengalese che dava davvero poca fiducia ma che alla fine ci portò a destinazione.
Laereoporto era il piu rustico che avessi mai visto, restai subito colpito dalle dimensioni microscopiche e dai muri in mattoni rossi senza nessun tipo di finitura, i banchetti di legno grezzo degli ufficiali di dogana e il nastro dei bagagli rudimentale in una grande stanza vuota e polverosa dove la poca gente aspettava di ritirare il proprio borsone impolverato.
All aereoporto ci aspettava Carmen da qualche ora, prendiamo subito un taxi che per un euro a testa ci porta in centro.
Prendiamo una stanza, ci rilassiamo un po, doccia e io e Andrea non vediamo l ora di vedere se potevamo trovare un posto dove mangiare qualcosa di sostanzioso e riconoscibile, magari anche buono…
Carmen veniva da casa ed era ancora nutrita bene, ma io e Andrea, dopo 15 giorni di denutrimento forzato, davvero non potevamo pensare a nient altro di un pasto decente e soddisfacente.
Vediamo un insegna scolorita su una vetrina con scritto “Kebab”, era poco convincente, in nepal, ma c era scritto kebab, e ci siamo seduti.
Fu uno dei kebab piu apprezzati della nostra vita, ogni morso ci guardavamo compiaciuti e sorridenti ma con la bocca troppo piena e indaffarata a masticare per scambiarci opinioni.
Decidiamo durante la cena, ottimisti e a pancia piena, di stare qualche giorno, goderci un po di pace e decidere sul da farsi.
La mattina mi svegliai di colpo con una simpatica diarrea, subito maledii il bangladesh e il suo cibo. Sulla via del bagno incontrai il mio compagno di kebab, con la diarrea anche lui…
Carmen non aveva preso quel delizioso e farcitissimo kebab la sera prima, e stava bene. Quel bel panino era proprio troppo buono per essere vero, come una di quelle sirene sugli scogli che ti ammagliano e poi ti affogano…
Speravo fosse passeggera, ma l intensità ci spinse nel pomeriggio a correre in farmacia.
La città era caotica anche qui, l intensità del traffico era minore di altre capitali asiatiche, ma le strade erano strette, piene di buche e polverosissime, tanto che molta gente se ne andava in giro con la mascherina, l intensità e frequenza dei clacson uguale a Dhaka, i motorini ti graffiavano i gomiti fin che provavi a stare vicino ai muri cercando di evitare l umanità che andava nell altro senso.
Insomma, un bel chaos che mi innervosiva vista la voglia di pace che mi ritrovavo. Volevo andarmene in montagna al piu presto possibile e ora mi ero malato.
Volevo andarmene a fare il trek che arriva al campo base dell Everest e sarei arrivato al momento giusto dove le spedizioni partono, in quel lasso di sole 3 settimane all anno dove si aprono casualmente le finestre di bel tempo che permettono di scalare la cima senza vento a 200km/h…
Quando dopo una settimana ero in forma di nuovo si malò Carmen, molto probabilmente per il cibo, ancora.
Questo ritardava di molto i nostri piani e Andrea, visto che il trek era piu di 3 settimane, non avevea il tempo per aspettarci, e parti per il suo, sarebbe uscito dal nepal quando noi eravamo a metà strada, ci saranno sicuramente altri viaggi cazzari e altri incontri in posti insensati in futuro sicuramente.
Passiamo 10 giorni in totale, di agonia, a Kathmandu, chi a turno non era malato, faceva il facchino per l'altro in città a respirarsi smog e polvere e innervosirsi per i clacson.
Kathmandu fa schifo.
Ci prepariamo per il trek, compriamo 30 snack tipo mars e twix e cioccolata, nescaffè, noodle e tutto il cibo leggero che potevamo portarci, fornello, pentolina, mappa topografica, sacco a pelo pesante ecc..
Non ce la facevo piu e una mattina andiamo alla stazione degli autobus pubblici con lo zainone a cercare un bus per Jiri, l inizio del nostro percorso.
I turisti “bianchi” hanno smesso di fare questa parte di trek perché da anni si può volare a Lukla, e poi volare indietro, risparmiare 10 giorni di cammino e rischiare la vita in un atterraggio su questa pericolosa striscietta di asfalto a 3000m che inizia su un precipizio e finisce con un bel muro.
Noi invece da asini siamo appunto andati alla stazione di bus pubblici.. uno schifo…
Una megafila al bigliettaio, nel casino di urla e mani che stringevano banconote che si agitavano presi dei biglietti a caso urlando il nome della destinazione “jirii…jiriii”
Il nostro bus sembrava una grossa scatola di scarpe arruginita con 4 ruote (forse 3) tutto ammaccato e pieno di bambini sul tetto che caricavano pacchi.
Avevamo già la visione del nostro viaggio scomodo sulle nostre facce deluse e impolverate. I nostri zainoni in equilibrio vicino al cambio rotto, da come l autista imprecava cercando di inserire la seconda ogni volta, i sedili abbastanza duri, le sospensioni che sembrava di essere su un tappeto elastico a saltare, e, ovviamente, come ogni bus in asia, era strapieno di umanità che sbraitava e sudava l anima nel caldo umido che comincia a fare da ste parti.
Essendo un bus pubblico si fermava ogni villaggio a scaricare e caricare umanità e mercanzie varie, anche animali, dal tetto saltavano giu bambini e scolari che erano arrivati a casa e ci buttavano su qualche altro pacco, alla fine per fare 180km ci sarebbero volute 12 ore, avevo il primo assaggio del perché in Nepal misurano le distanze in ore e non in km, sia stradali che nei trekking.
La strada era ogni km peggio, le buche profonde non si contavano, una sola corsia perciò all incontro di un altro bus o camion erano un 10 minuti di clacson e manovre suicide su strade sterrate di montagna, anche fino a 2700m.
A volte era cosi brutta che sembrava una pista da motocross con ostacoli, gomme, cubi di paglia e salti
Non serviva chiedersi se un bus cosi si sarebbe rotto perché era garantito al 100%. Piu di una volta si sentiva puzza di frizione bruciata. Una delle tante volte l autista si fermò, sparì imprecando dietro un angolo e dopo qualche minuto tornava con la faccia incazzatissima e un martello da 10kg in mano, dava delle martellate ercolane sul fronte del motore e ripartiva.
Una volta in 5 persone cercavano di riparare qualcosa nel mozzo ruota che non ho capito, non sarei sceso o avrei perso il posto a sedere per sempre.
Un'altra volta entrarono in un paio di meccanici locali e toccarono qualcosa nel motore proprio li vicino che mi arrostiva i polpacci da ore.
Sfiniti dal viaggio e dall assenza di cibo, ancora, scendiamo dopo 12 ore sui sedili, a Jiri, nel buio piu nero di un villaggio dove finiscono le strade fin ora costruite in nepal.. Prendiamo il primo tugurio che ci capita al costo di un euro (50cent a testa) a notte.
Da li in poi niente motori, niente biciclette o motorini, niente clacson, da li, se vuoi andare da qualche parte, ci vai a piedi.
La mattina dopo partiamo impazientissimi e curiosi, felici finalmente di poter camminare pacifici e in silenzio, salutiamo il simpatico lama padrone del tugurio e ci incamminiamo.
La decisione di prendercela con calma senza esagerare era stata presa prima, ci eravamo presi 25 giorni per farla tutta, da come avevamo letto sui forum dove altri l avevano fatta.
Ancora mi incasinava questa cosa delle “ore” invece dei km, sulle mappe e su tutti i vari programmi di marcia e dalle risposte che ti davano i contadini alle nostre richieste.
Mi risposi da solo dopo un paio di giorni… 3 km sulla mappa qui possono essere 20 minuti sul piano o 4 ore su queste montagne… bisogna seguire le tracce o con il sottobosco cespuglioso presente non te la cavi piu, e i nepalesi hanno un motto che dice “la strada piu corta tra due punti è una linea retta” e qui la applicano alla lettera. Se devono andare in un villaggio nell altra valle scalano la montagna dritto sul lato piu ripido e la discendono dritti dall altra parte, un suicidio muscolare e respiratorio, soprattutto a certe altezze, ma loro vivono cosi da generazioni e si sono adattati, noi pretendevamo di fare un mese tutti i giorni cosi senza essere davvero allenati.
Con tutti i ritardi necessari forse mi perdevo le spedizioni, ma il giorno della partenza, il 12 maggio, era l anniversario del giorno in cui, 2 anni esatti fa, mi ero incamminato dal cancello di casa verso la stazione degli autobus del mio paese, pieno di curiosità, entusiasmo e tanta voglia di scoprire quello che c è fuori dalla tanto bella quanto chiusa mentalmente Italia.
Ed era la stessa voglia che avevo in quel momento, la mia promessa di prendermela con calma sembrava già andata in fumo, ero curioso di mangiare e dormire in quelle casette di pietre, freddissime, dove bruciano merda di yak per scaldarsi, di cui avevo letto.
Di vedere quei ghiacciai maestosi e lunghissimi che scendono da massicci di 8000 metri…
Dovevamo spostarci da ovest a est per almeni 7 giorni il che voleva dire attraversare 4 catene montuose, su dalla montagna… giu dalla montagna… via cosi.. fino alla valle da risalire fino al ghiacciaio…
I primi giorni erano duri, gli zaini pesanti e le gambe dovevano abituarsi. Il tempo era sempre incerto ma mai piovoso, quando il sole batteva però faceva un gran caldo e la crema solare ad altissima protezione sembrava bollire sulla pelle.
La gente che c era nei villaggi spesso non parlava inglese e aveva la traduzione nella loro lingua sui menu dove ordinavamo il cibo.
Stranamente era sempre buono ma la cosa si spiegava col fatto che era ovviamente cibo fresco locale, le verdure dall orto (sempre quelle) e le patate dalle piantagioni dei villaggi piu grossi, il latte e formaggio dalla pecora che ci gira intorno, ovviamente, essendo molti buddisti, la carne ce la dimentichiamo. Ammazzare una vacca porta a 2 anni di galera qui.
Riso, patate, tante, in tante salse, e vegetali, 2 o 3 tipi in diverse salse. A volte una specie di panetto locale, tipico indiano, con un po di pomodoro e formaggio di capra chiamato pizza. Questo piu o meno il nostro menu per l intero trek.
A volte si trovavano in vendita birre, coca cola diversi snack e generi alimentari base nei negozieti dei villaggi, ma a prezzi esagerati per il nepal. Ma come ci arrivano qui e perché cosi cari, è una delle sorprese del nepal che piu mi ha colpito. Qui una buona parte della popolazione non istruita fa il lavoro piu facile da avere se non si ha altre possibilità, e che a volte può anche rendere bene. Il “portatore”
Gente disumana che in ciabatte e quattro stracci addosso si carica nel cestino di bamboo sulla schiena, leverato con una corda alla fronte per fare forza, quantità di roba di qualunque tipo pesantissima, da bombole del gas, casse di birra, pannelli di legno, sacchi di cemento per costruzioni, davvero, qualunque cosa, 60, 80 anche 100kg…
A volte camminano per giorni, da dove finisce la strada fino a un villaggio a 7 giorni di distanza, su e giu da questi tracciati a volte insicuri, sdrucciolevoli o semplicemente pietrosi e ripidi, loro piegati in avanti con la testa che tira e le faccie affaticate. Ma tenevano duro e vedeste come ci davano dentro. A volte erano minuti vecchietti, a volte 12 enni senz altre possibilità, a volte appoggiavano il carico al bastone e riposavano qualche minuto prima della salitona, non capivo come davvero facessero, erano penso contro le leggi della fisica… 100kg!!!!
Ne abbiamo incrociati parecchi ogni giorno, che scendevano come capretti tagliando i tornanti sul ripidissimo saltando da una roccia all altra.
Tra un villaggio e l'altro potevamo goderci il panorama mutevole con l altezza, e come cambiava velocemente anche il tempo con l altezza, a volte vedevi i nuvoloni formarsi a valle e il vento li portava lentamente, fin che si ingrossavano e scurivano, verso l alto dove spesso eravamo noi, si trasformava da una fornace a un frigo con ventola accesa e nebbia con visibilità 10 metri
a volte da ponti a cui non vedevi la fine, a metà strada, dovevi tornare indietro perché buoi e yak di certo non li spostavi e non volevi neanche spintonarti con loro
Oltre ai tanti portatori, per le grandi spedizioni si usavano diversi tipi di animali, a volte gruppi numerosissimi di muli, a volte buoi e a volte i famosi “yak”, una razza di buoi che si sono evoluti per vivere a queste altezze, con lana intorno al corpo e 5 volte tanto i globuli rossi dei cugini buoi per protare in giro per il corpo il poco ossigeno presente.
Tante galline, tante capre, spaparanzate all ombra o enormi greggi che ci bloccavano per 20 minuti fermi ad aspettare la fine del loro passaggio.
Per fortuna ci avevano consigliato che quando vedevamo una colonna di animali, soprattutto yak, di schiacciarci sulla parte della traccia a monte, o c era il rischio di essere colpiti da essi e lanciati nel vuoto in qualche precipizio... il pericolo c era davvero
La nostra routine cercavamo di tenerla costante per tutti i giorni. Sveglia alle 5:20 di mattina, colazione con caffè e biscotti, chiudere sacco a peli e preparare lo zaino con partenza tra le 6 o le 6:30 quando il tempo era sempre bello, fino intorno alle 11 dove ci fermavamo a pranzare cucinandoci qualcosa col fornelletto o in qualche “teahouse” locale dove servivano sempre cibo locale a pochi euri. Acqua e sempre acqua, dovevamo purificarla ogni giorno con un agente chimico e a volte ci versavamo qualche polverina al limone o all arancio ma era un lusso riservato per i pochi giorni che sapevamo sarebbe stato faticoso. Purtroppo qui non è la Nuova zelanda, dove i fiumi alla foce erano quasi puri come al ghiacciaio, troppi villaggi, troppi abitanti e i fiumi non erano puliti abbastanza.
Camminavamo dopo pranzo solitamente fino alle 3 del pomeriggio dove solitamente i nuvoloni ci coprivano il cielo e cercavamo riparo, una stanza dove poterci riposare per il pomeriggio e con un po di fortuna, goderci il sole rimasto prima che tramonti dietro le alte montagne in cornice, cercavamo di dormire a valle per goderci le temperature decenti fin che potevamo.
Nelle guest house dei villaggi la vita era davvero rustica. C era solo elettricità generata da microcentrali fatte da mulini generatori nei ruscelli, pochi watt per casa, il bagno se non era lattrina era una turca in un gabbiotto di legno mezzo aperto, cosa pesante quando tira il vento freddo. La doccia era un secchio d acqua fredda, l acqua corrente non c era quasi mai e uscire dalla camera la sera per lavarsi i denti dal secchiello era un trauma. Peggio ancora la mattina per lavarsi la faccia. 5 gradi e il classico sereno gelido dopo la tempesta. Era sempre bagnato perche quasi tutte le notti c erano temporali che scaricavano pioggie potenti per qualche ora per poi schiarire all alba.
Le stanze a volte erano carine, diciamo simpaticamente tipiche, con le porte che non scivolavano mai bene nelle loro cornici, muri di grosse pietre accatastate una sull altra senza cemento e con gli spiferi, a volte rivestiti con i fini pannelli di legno che avevo visto sulla schiena dei portatori.
I bagni in verità nelle case non esistevano proprio.
Un giorno per un errore di calcolo e della mappa, decidiamo di proseguire dopo le tre, pensando di poter trovare qualche camera qualche km piu avanti. Quando chiedevamo ci rispondevano sempre “”Kinja,..Kinja” e per fortuna il tempo non cambiò, ma fu una collezione di 11 ore di marcia, eravamo belli fusi e siamo arrivati verso le 18:30 all ora del tramonto, dove abbiamo subito mangiato e crollati nel sacco a pelo.
Come già detto la sera diventava fresco, non c era ne Tv, ne radio o internet. Conservavamo la batteria dell ipod per le salitone dove serviva un po di supporto morale e vi assicuro che alle 8 di sera non volava piu una mosca. Tutti gli abitanti erano a letto o intorno al forno tipico locale dove cucinavano per godersi l ultimo calore rimasto prima di coricarsi. Noi, vista l assenza totale di qualunque cosa da fare e il buio, cercavamo di leggere con la torcia frontale, ma durava poco, la stanchezza e il tepore del sacco a pelo ti facevano crollare in pochi minuti.
Il giorno dopo dovevamo passare da 1500m salire ad un passu di 3700 e poi riscendere a 1600, tutta in salita costante ripida, ovviamente lo abbiamo diviso in 2 giorni o saremmo davvero morti.
Una volta arrivati a 3500 metri, con noi che non vedevamo l ora di vederci il panorama, si creò il nebbione istantaneo, le nuvole ci coprirono e arrivò un vento freddo.
Il passo di Lamjura, a 3640m, era bello e corredato da bandiere di preghiera ma invece di mettermi una giacca cercai di salire in fretta sperando che dall altro versante fosse meglio, ma era uguale e io mi presi un bel raffreddore.
Siamo poi scesi a 2700 metri ad un villaggio sherpa, il primo vero villaggio buddista tibetano, con totalmente diversi lineamenti, colore di pelle, usi e costumi dei nepalesi hindù.
A jumbesi si trovava infatti un grosso tempio dove per il giorno seguente era prevista la visita di un importantissimo lama, reincarnazione di un maestro avanzatissimo.
Il villaggio brulicava di monaci eccitatissimi e anche tutta la popolaziione lo era, era la prima volta che da turista alieno nessuno mi dava tanto bado.
Era tutto pieno in giro e il giorno seguente abbiamo potuto vedere davvero una bella cerimonia, tutto il villaggio era fermo in piedi in attesa del lama, lungo la “strada” principale, con le mani giunte che reggevano il fazzoletto tipico di benvenuto da mettergli “virtualmente” intorno al collo.
Chi era seduto ai lati teneva una specie di rosario e pregava, si sentiva la campana del tempio suonare ed era pure una bella giornata di sole. L atmosfera mistica davvero contagiava, non c erano distrazioni, era davvero il posto perfetto, silenzioso e naturale dove mi ero sempre immaginato questi monaci potessero veramente meditare in pace.
Cominciavamo a capire perché dicano di prendersela con calma, la salita ti uccideva di fatica e la discesa le dita dei piedi sempre “impuntate” nella scarpa, e le ginocchia. Tratti piani erano forse il 5% della traccia nei primi giorni. E ci mancavano altri 2 passi intorno ai 3000m per arrivare nella valle dove cominciare a salire lentamente a nord seguendola.
In quei momenti pensavo qualche volta a quante notification potevo avere in facebook, a cosa succedeva nel mondo, a una pizza col salamino, a una doccia calda in un bagno chiuso da spiferi, alla sensazione di una redbull ghiacciata che scendeva attraverso la gola in un sol sorso, a tutta la cioccolata e cibo e polverine zuccherose per la noiosa acqua che pesavano negli zaini, ma che avevamo deciso di risparmiare per sopra i 4000m dove ci sarebbero serviti di piu, a quanto mi sarei gustato il primo Mars…
Il tempo era pazzo, pazzo davvero, il nostro benestare dipendeva solo dalla presenza o meno del sole, qualunque fosse l altezza. Anche a 3500m col sole c era un gran caldo, senza di esso era sicuramente nebbia e vento freddo.
Qualche volta ci prendavamo una mezza giornata libera, in qualche posto particolarmente bello e panoramico non ripartivamo dopo il pranzo, e ci sedevamo al sole a leggere o semplicemente a osservare intorno.
Con niente da fare o con cui distrarti, era curioso osservarsi bene intorno, vedere come vivono qui in mezzo al niente, senza elettronica ne musica, pieno di animali ovunque, niente recinti, capre, vacche galline in giro per i sentieri e le case, spesso anche le cucine quando c erano. Di conseguenza anche i loro escrementi erano ovunque, quelli di vacca ben schiacciati e messi sulle pietre ad asciugare al sole.
Il contadino che urla al bue il quale tira il vecchio aratro e che ci saluta sorridente,
i giovani che spaccano le pietre con martelli giganti, quelli seduti intorno che le scalpellano per farle quadrate e gli altri che salgono direttamente con i muri
Qui farsi una casa era semplice come dirlo, anche grazie ai portatori che portano sulle spalle le lastre ondulate di metallo per fare i tetti che vedete nella foto sopra, le case vecchie (di qualche anno) i tetti li hanno di pietre… un piccolo terremoto o cedimento e le famiglie spariscono
Una volta superati il taksindo pass e il kari-la pass, entrambi intorno ai 3000, erano passati 9 giorni e finalmente potevamo continuare a risalire la stessa valle, seguendo il fiume Dhadikoshi Nadi, poi uno dei suoi affluenti fino al ghiacciaio dove nasceva… in una settimana di cammino!!
La cosa mi diventa molto piu facile con un fotoblog
Tra merda di yak, capre, vacche e cavalli, con la pioggia notturna si impaltanava tutto bene fino a farti sprofondare per qualche centimetro... nella merda... le foto purtroppo no
Jiri-Everest b.c. trek
La salita era ripida e a quell altezza cercare di andare veloce per evitare i nuvoloni del pomeriggio mi fece rendere conto di quanto poco ossigeno c era da respirare. Quando mi fermavo a riprendere fiato (spesso) mi accorgevo che il mio battito non decellerava in fretta come al solito e il fiatone necessitava di qualche minuto per passare, la cosa piu divertente è che mi rendevo conto di non essere lucido, un po in panico senza ragioni, piu o meno la sensazione di esseresi fatti una canna.
La strada del ritorno, ancora fortunatissimi col tempo, vista la bassa stagione e il teorico monsone che non abbiamo avuto
Questa roba se non fosse per gli svedesi che pagano delle compagnie di sherpa e yak che fanno su e giu (non alla vetta) con questi sacconi (ho visto almeno6 o 7 spedizioni come questa) a portare giu la spazzatura l Everest sarebbe una discarica. Già anni fa ci furono molte critiche da parte di associazioni di alpinisti ai nepalesi e agenzie locali che usavano la montagna come fonte di guadagno senza prendersene cura e lasciando per strada un sacco di spazzatura e bombole d ossigeno per strada abbandonate.
Ma la vedete quanta roba è??? tutta spazzatura!!!! Vi immaginate 7 volte (forse piu) tutta sta roba ogni anno???
Dal base camp, al ritorno, dopo 5 giorni di cammino su quasi la stessa strada dell andata decidiamo di prendere l aereo dopo una deviazione per luckla (2900m) dove non eravamo ancora stati e dove c era una striscia asfaltata per l atterraggio, e dove solitamente i turisti occidentali iniziano e finiscono il trekking che da qui al campo base dell everest durerebbe solo 12 giorni (15 con calma) e che ci avrebbe risparmiato 10 giorni su e giu sulla strada già fatta.
Oltre a questo risparmio era eccitante la possibilità di volare con questi piccoli aerei da 15 posti in questo famosissimo "aeroporto", se cosi si può chiamare, a 3000m che comincia con un muro e finisce su un bel precipizio che non lascia ai piloti la possibilità di sbagliare un centimetro, sia in decollo che in atterraggio, e che faceva cacare addosso i passeggeri.
In effetti una volta vista la pista ci siamo resi conto di cosa si parlava....
Il giorno dopo ci presentammo al check in alle 7:30 per il volo delle 8:30.... nebbia paurosa e tempo brutto... i voli in ritardissimo, con l unica specificazione dell orario "quando si schiarisce"!!! va bene cosi, con quella nebbia era un suicidio atterrare e dopo 6 ore in aeroporto a curiosare su tutto il casino di equipaggiamento e spazzatura accatastati a caso all interno, facendo inkazzare i militari che ci mandavano via, il nostro aereo arrivò... era piu piccolo del normale 15 posti e altra gente avrebbe dovuto aspettare il prossimo... lo chiamavano "taxi dei cieli" ed era solo 5 posti piu pilota e copilota.... prendere o lasciare!!!
Volo superpanoramico ea bassa quota con gli spifferi d aria che mi rinfrescavano la faccia, un po spaventoso e insicuro, nessuno dei 5 presenti disse una parola, tutti abbastanza tesi, ma dopo un oretta atterrammo sani e salvi in quell inferno caldo e umido e inquinatissimo di Kathmandu.
Che altro dire, piu che un trekking è stata una missione, un challenge col nostro corpo, gambe, schiena e la nostra mente, tutto il tempo. Ma ce l abbiamo messa tutta e ne è valsa la pena alla grande. Grazie della pazienza per leggere questo poema, ma anche volendo fare un riassunto è stata lunga....
a di certo non l ultima..... con sto caldo non vedo l ora di tornare tra le montagne innevate e congelate, ognuno è fatto a modo suo, ma io in quei posti mi sento bene, vivo, e mi riempio davvero di felicità...
byeeeeeee